Docenti esauriti e terrorizzati, l’ingiusto senso di vergogna di Vittorio Lodolo D’Oria

L’anno scolastico è cominciato da poco e già mi arrivano numerosi appelli di aiuto da parte di docenti esauriti e terrorizzati alla sola idea di dover affrontare la faticosa lotta professionale.

Tra le tante testimonianze spicca quella sotto riportata per la ricchezza di spunti, le dinamiche tipiche del malessere e soprattutto per quel senso di vergogna innaturale che porta addirittura a dover nascondere la propria identità non firmandosi. Per una più immediata comprensione del testo, le riflessioni saranno riportate nello scorrere della lettera.

Lettera. Gentile dottore, sono stata per venticinque anni un’insegnante di Scuola Primaria, appassionata e carica di ideali: ho sempre considerato l’insegnamento un impegno sacro, un compito di grande responsabilità che ho cercato di assolvere dando il massimo. Ciò nonostante, man mano che passavano gli anni, mi sentivo sempre meno all’altezza di questo ruolo, schiacciata dalle difficoltà: situazioni problematiche e delicate (sempre più numerose) di alunni in difficoltà, scarsa collaborazione da parte di alcune famiglie, adempimenti burocratici pressanti. Mi sentivo sempre meno capace di gestire l’ordine in classe e mi capitava spesso di abusare della voce che non risparmiavo oltre che per spiegare, leggere, cantare, anche per richiamare l’attenzione dei bambini indisciplinati: una condotta abbastanza comune per noi insegnanti. Le conseguenze di ciò sono stati alcuni problemi alle corde vocali, culminati in un prolasso bilaterale delle stesse. Ma a dire il vero, la cosa più grave è che ho vissuto anche lunghi periodi di depressione e ansia ai quali ho dovuto far fronte rivolgendomi ad uno specialista, uno psichiatra che mi ha aiutato anche con una terapia farmacologica a base di antidepressivi ed ansiolitici.

Riflessioni. L’anzianità di servizio è relativamente bassa e la passione per il proprio lavoro evidente. Le cause dell’esaurimento psicofisico sono ben rappresentate ed arcinote (alunni indisciplinati e non, famiglie poco attente, burocrazia pletorica) fino ad arrivare alle tipiche “corditi”. Ed è solo l’inizio, perché “a dire il vero, la cosa più grave è che ho vissuto anche lunghi periodi di depressione e ansia”. Cominciano così la psicoterapia, e la terapia a base di ansiolitici e antidepressivi. Il sentimento di vergogna comincerà a essere alimentato da due fattori: l’incapacità a svolgere il proprio lavoro e gli immancabili stereotipi sugli insegnanti.

Lettera. Non vivevo più serenamente e non mi sentivo più capace di insegnare (con il mio filo di voce e la mia insicurezza) e così, sentendomi colpevole per non essere produttiva come avrei voluto, ho chiesto di essere sottoposta alla visita della Commissione Medica di Verifica per verificare la mia idoneità all’insegnamento, superando grandi dubbi e paure. Il mio prolasso alle corde vocali è stato sufficiente perché la CMV decretasse l’esito della mia inidoneità all’insegnamento, per due volte in modo temporaneo infine in modo definitivo. Ciò ha comportato per me, dover accettare per due anni un nuovo contratto con mansioni parascolastiche a 36 ore settimanali, diventando un ibrido: un jolly che si occupava di tutto ma, di fatto, non era nulla di preciso: bibliotecaria, responsabile del sito scolastico, collaboratrice amministrativa (scansioni, circolari, gestione posta elettronica…), supporto alle figure strumentali, supporto ai collaboratori del dirigente e mille altri adempimenti che spuntavano di continuo come funghi.

Riflessioni. Cedono definitivamente le “corde vocali” e con loro l’autostima per non essere riuscita a svolgere il lavoro che la maestra aveva scelto. Ne conseguono le tre richieste di accertamento medico in CMV con provvedimento definitivo di inidoneità all’insegnamento e il collocamento in “altre mansioni” alla stregua di un jolly. Tutti incarichi dignitosi se non fosse per quel senso di vergogna che finisce col farti sentire un imboscato, non solo di fronte all’opinione pubblica, ma addirittura dai tuoi stessi colleghi. Per non parlare degli ATA che ti vivono come corpo estraneo approdato nel loro uffici spesso perché “fuori di testa”.

Lettera. Era tutto ciò che mi adoperavo a fare per superare il senso di colpa per essere stata inutile come insegnante. Infine, quando sono stata dichiarata “inidonea all’insegnamento permanentemente”, ho creduto che la normativa mi consentisse di chiedere la dispensa dal lavoro ed accedere al trattamento pensionistico, seppur di minima entità, ed ho sperato di poter uscire definitivamente dalla Scuola. Così non sarà e transiterò nei ruoli ATA. Ho tanti dubbi per il futuro che mi aspetta in quel ruolo a cui sono scarsamente preparata, in una sede che non so quale potrà essere, e con una sola certezza: un demansionamento qualitativo con un orario non più flessibile (36 ore settimanali). Ciò nonostante, cercherò di adattarmi consapevole che realmente non avrei potuto continuare ad insegnare (non avevo più la forza e la voce) e che ciò che dovrò fare, non sarà mai, comunque, complicato come il mestiere di Maestra.

Lettera. Mi auguro che i governi italiani, in futuro, mostrino maggiore sensibilità verso la professione difficile degli insegnanti e verso la posizione delicata dei docenti inidonei. Mi scusi se non mi firmo con il mio nome e cognome perché mi vergogno un po’.

Conclusione. L’ultima frase della lettera rappresenta il crudo epilogo della storia per le tante “maestre senza nome”. L’essenza di ciascuna persona è infatti l’identità che ci accompagna per tutta la vita. Il rinunciare deliberatamente a firmare la lettera dimostra che la vergogna induce dapprima l’individuo a nascondere la propria identità, quindi a negarla risolutamente, rivelando tutta la frustrazione provata per non riuscire nemmeno a riconoscere il proprio ruolo nella società. Da qui, istituzioni e politica, dovranno ripartire per non trasformare i docenti in fantasmi e restituire loro dignità mediante riconoscimento delle malattie professionali; tutela della salute a norma di legge; salario allineato alla UE; rivisitazione della previdenza in base all’alta usura psicofisica.